sabato 30 gennaio 2010

Love my rifle more than you *

Questo libro (edito da Phoenix e disponibile solo in inglese, per quanto ne so) parla dell'esperienza sotto le armi di una donna soldato USA (l'autrice Kayla Williams) che ha vissuto l'esperienza dell'invasione in Iraq.
Cosa c'entra con il blog? C'entra in maniera relativa in effetti, ma poiché mi sono occupato in passato della figura della donna combattente e della sua rappresentazione nella realtà e nella letteratura fantastica non lo ritengo completamente off-topic: ho continuato a cercare contenuti che potessero permettermi di ampliare quella ricerca. Il tutto con l'ovvio limite che non è che non abbia niente altro da fare nella vita.
Può essere spunto di riflessione per chi, quando legge fantasy o fantascienza, vede la questione risolta in maniera assolutamente non problematica (ad esempio: I Pirati dell'Oceano Rosso) o non realistica (tutti i libri dove una ragazzina esile con gli occhioni tipo manga prende un'arma e ammazza orde di guerrieri) e se ne ritrova insoddisfatto.

L'autrice parla di se stessa al di là di quello che sarebbe strettamente necessario per l'argomento, quindi la seguiamo attraverso la crescita in una famiglia presto divorziata, un'adolescenza abbastanza disastrata (per i nostri standard più tradizionalisti, almeno) e la decisione di arruolarsi dopo aver perso il lavoro, fattore che da quelle parti sbatte la gente a terra molto più rapidamente che da noi. Quando inizia il conflitto in Iraq la nostra eroina si trova nella 101ma divisione aerotrasportata (unità che si lanciò sulla Normandia e su Arnhem nella Seconda Guerra Mondiale, e prese parte a un sacco di conflitti nel dopoguerra prima dell'attuale) e partecipa come interprete (non esattamente il suo ruolo, ma le hanno fatto studiare l'arabo e la prima necessità diventa avere sul campo qualcuno che lo parli).

Non ci sono occasioni in cui prende parte a combattimenti (sparando con la sua arma, e cose di questo tipo). Ma ha un sacco di cose da dire riguardo all'esercito: nella maggior parte dei casi sono assai critiche ma non del tutto insensate. E ha da dire sulle persone con cui si trova a lavorare insieme. Non mi ha sorpreso il fatto che le superiori donne sono le persone con cui il rapporto si rivela particolarmente disastroso (dico così perché nella mia esperienza personale il "capo donna" risulta spesso indigesto più alle altre donne che agli uomini). Sul fatto di essere donna in un esercito composto per l'85% da uomini la nostra autrice ha però parecchio da dire.

Zoccola. La sola altra possibilità è stronza. Se sei donna e soldato, queste sono le uniche scelte che hai... il 15% dell'esercito che è di sesso femminile deve ancora uscire da quel vecchio modo di dire: "Che differenza c'è tra una stronza e una zoccola? Una zoccola va a letto con tutti, una stronza va con tutti tranne che con te"


Se quindi pensate che non ci siano certe problematiche nell'esercito più moderno, nato dalla nazione per molti aspetti più avanzata del mondo, avete sbagliato. Kayla dice chiaramente che essere una donna in un teatro di guerra equivale a essere una merce desiderabile che si trova in scarsa quantità. Questo ovviamente crea un richiamo, un fascino nell'essere donna soldato, perché dà facilmente la tentazione di sentirsi speciali. Si mescola piuttosto male con il cameratismo dei soldati, però.

L'autrice si trova a passare parecchio tempo con una certa unità militare, e riesce a fraternizzare con questi soldati che estendono a lei il turpiloquio in uso normalmente fra loro, e arrivano a considerarla "una del gruppo" quando lei si presta a ridere e scherzare, a comportarsi un po' come loro. La famosa tentazione di essere "just one of the boys". Ovviamente l'incidente in cui uno dei soldati "ci prova" in maniera decisamente poco ortodossa non tarda ad avvenire e Kayla si trova obbligata a prendere le distanze e ad assumere il ruolo della "stronza" che non lascia spiragli di confidenza.

D'altra parte Kayla è lei stessa la prima, quando si rapporta con altre donne, a giudicarle per l'aspetto fisico e a notare per prima cosa se sono carine o no. Il suo modo di vedere non è femminista. Cerca una sua dignità e trova imbarazzante il comportamento delle donne soldato che si comportano come se fossero sempre bisognose di aiuto o ne approfittano per l'attrattiva che esercitano sui soldati maschi o non cercano di essere competenti nel lavoro di cui si occupano. La sensazione fondamentale che si trae dal libro è di un disagio che non può trovare una facile soluzione. Anche perché, operando in un paese musulmano, da parte dei civili stessi non è semplice rapportarsi con lei (per quanto l'esperienza nel libro sembra soprattutto positiva).

Interessante notare che Kayla viene usata in un interrogatorio per cercare di spezzare un prigioniero arabo, facendolo comparire nudo di fronte a lei che è incaricata di umiliarlo (dirgli che "ce l'ha piccolo" e cose simili). Cerca di farlo, senza molta convinzione, ma poi evita di ritrovarsi in altre situazioni simili. Particolare che farà riflettere chi pensasse che ad Abu Ghraib fossero successi degli episodi isolati.

Questo il resoconto di una donna che ha cercato di fare il soldato senza pretendere favori particolari e sforzandosi di meritare qualcosa per il suo lavoro (almeno, questo è ciò che dice di sé). Il fatto di essere donna non può essere separato praticamente mai dalla sua esperienza. Il fantastico può immaginare mondi differenti, ma a mio parere le premesse di queste differenze devono sempre essere sensate: sfuggire alla realtà sì, ma come?


* il titolo riprende una marcia militare, di quelle che servono a tenere il passo, provo a tradurla: Cindy, Cindy, Cindy Lou/ amo il mio fucile più di te/ eri la mia reginetta di bellezza/ ora amo il mio M16

lunedì 25 gennaio 2010

Nessun Uomo è mio Fratello


Sarò in grado di dare un parere imparziale su questo libro? Forse no, perché ha vinto il Premio Odissea cui ho partecipato anche io, quindi mi trovo a pormi (inevitabilmente) quella certa domanda, cos'ha questo libro che non aveva il mio, visto che è arrivato solo in finale? perciò non fidatevi di me. Ma proviamo a procedere.
Nessun Uomo è mio Fratello (edito dalla Delos) è, se non vado errato, il secondo romanzo di Clelia Farris, scrittrice che si era già segnalata con un precedente titolo, Rupes Recta.
L'idea portante che dovrebbe collocare questo libro nella fantascienza è un particolare che caratterizza tutte le persone: una C o una V che determina se il portatore è Carnefice o Vittima.
Inoltre ogni segno è particolare e legato a uno del tipo opposto, perciò ogni vittima è legata a un determinato carnefice, che sarà immune da qualsiasi conseguenza legale se ucciderà la "propria" vittima. Tuttavia il carnefice generalmente non sa qual è la sua vittima designata.

Ho pensato fino alla fine della mia lettura che il motivo (scientifico, o meglio fantascientifico) di questa premessa sarebbe stato spiegato, ma con mio disappunto ciò non è avvenuto. In pratica sebbene i carnefici siano spesso e volentieri prepotenti e arroganti (cosa che un sacco di gente che conosco riesce ad essere pur senza che una C gli compaia sulla pelle), ci sono anche situazioni in cui le cose non sono così nette. Perciò fino a che la storia non si evolve, con il protagonista coinvolto in attività che hanno a che fare con questa faccenda di carnefici e vittime, la premessa fantascientifica non ha fatto molta presa sul sottoscritto. A peggiorare le cose, l'inizio (direi ben un'ottantina di pagine) narra di situazioni bucoliche e m'ha fatto apprendere sulla coltivazione del riso molto più di quanto mi interessasse sapere.

Detto tutto questo, e senza anticipare troppo la trama, le cose poi si sviluppano, ci sono un po' di trovate interessanti e qualche ben congegnato colpo di scena anche se un particolare non me lo sono spiegato: (piccolo SPOILER) perché il protagonista riesce sempre a inimicarsi tutti quelli con cui pareva avere un buon rapporto, e per giunta lo fa di punto in bianco? Scherzi a parte un paio di volte succede proprio così e mi sembra il pretesto per farlo muovere a un'altra fase della sua vita senza star lì a perderci delle pagine di descrizione.

Comunque questo libro è ben scritto e ha dalla sua un bello stile scorrevole: insomma una storia che quando finalmente parte riesce, direi, a viaggiar bene. Non mi ha esaltato ma si fa leggere. Ancor di più se avete un grande amore per le piantine di riso.

martedì 19 gennaio 2010

Rise of Empires


Un gioco abbastanza recente prodotto dalla Mayfair Games e progettato dalla mente fervida di Martin Wallace, Rise of Empires ricorda diversi titoli del genere di cui ho trattato in questo blog. Si tratta di un gioco strategico (fino a 5 giocatori) che ha come oggetto la supremazia mondiale, ambientato nelle diverse epoche, relativamente astratto e congegnato in modo da farlo durare un numero predeterminato di turni di gioco. Questo ha fra l'altro il vantaggio di mandare a nanna i giocatori a un'ora ragionevole.

Rise of Empires riesce a tenere in considerazione tutti gli aspetti: tecnologico, militare, economico ecc... la parte territoriale del gioco è molto astratta: nella mappa (che è divisa in regioni la cui accessibilità varia in tre diverse epoche, perciò all'inizio ci si concentra sul Mediterraneo, nella classica visione eurocentrica) si pongono le proprie forze (in effetti dei cubetti che possono simboleggiare anche altro) e si possono condurre delle guerre limitate, ma in verità se si è poco interessati all'espansione territoriale poco importa: il vostro impero è astratto. Lo componete di territori, città, ricerche scientifiche, ma non perdete nulla di tutto questo per sconfitta militare. La mappa e la lotta per il suo controllo possono però darvi punti vittoria, risorse e denaro. A ogni cambio di epoca le forze in campo "evaporano" parzialmente, simboleggiando lo scomparire delle antiche civiltà e il sorgere di nuove potenze (che sono comunque sempre interpretate dagli imperi dei giocatori).

Nota: Guardiamo un po' di cose che possono dare un "feeling" del gioco. Potete vedere la mappa e qualche altro elemento nella foto che ho scattato: osservate la zona mediterranea in bianco, è l'unica giocabile all'inizio. Il Mare Mediterraneo tra l'altro è un territorio e con due cubetti gialli lo controllo io, il che mi darà come premio due punti cibo, i pallini grigio azzurri disegnati circa nella posizione dell'isola di Malta. Un'altra linea diritta di pallini grigio-azzurri che tocca il nord Europa è il tracciato che tiene conto del cibo di tutti gli imperi. Il cibo è una preoccupazione costante nel gioco, perché le città mangiano e non ne producono. Il tracciato numerato che circonda la mappa è il conteggio dei punti di vittoria: quando ho scattato la foto il mio indicatore giallo era su 41 (sotto il bianco) ed ero quindi ancora secondo: poi ho avuto una debacle. Altre immagini e commenti riguardo questo bel gioco da tavolo li trovate sul sito in inglese Boardgamegeek

Tutto quello che fate nel turno di gioco è in alternativa ad altre ghiotte opportunità, come in Age of Empires, un gioco da tavolo che ho trovato abbastanza somigliante, sia per il meccanismo del turno che per il numero limitato e predeterminato di turni giocabili, che per l'esplosione finale di opportunità di cogliere punti vittoria.
Alcune delle vostre acquisizioni sono molto costose, come le città. Richiedono un mantenimento futuro, consumano cibo a ogni turno, ma danno un ricco bottino in termini di punti vittoria, perciò non è possibile trascurarle.

I territori hanno a volte dei costi e, sempre, dei benefici. Ad esempio le pianure (rappresentate da campi coltivati) danno cibo, le montagne danno risorse che possono essere scambiate per denaro (o altro), eccetera. I territori nessuno ve li porta via e non dovete pagare per mantenerli.

Le scoperte scientifiche, che hanno molti risvolti (politici, militari, economici e anche in termini di puri e semplici punti vittoria) sono destinate a sparire con il cambio di epoca, a meno che non paghiate denaro sonante per tenervele strette.

Aggiungo che il meccanismo del turno (non ve lo spiego) è fatto in modo da introdurre parecchia suspence.
Personalmente alla prima partita di prova ho maturato una valutazione positiva su questo gioco, magari un po' reminiscente di altri titoli in circolazione ma con una personalità sua, e ho sbattuto il naso contro una delle realtà di Rise of Empires: preferendo aspetti che davano benefici a breve termine, ovvero l'espansione militare sulla mappa, mi sono trovato in ritardo nello sviluppo degli aspetti che possono dare un duraturo vantaggio e costruire la forza del proprio impero nel tempo. Da primo in classifica nella prima epoca ho quindi rimediato un ben modesto ultimo posto al termine della partita.

Un problema però esiste: la possibilità di interferire (spesso e volentieri) con quello che fanno gli altri giocatori fa sì che in questo Rise of Empires si finisca inevitabilmente per dare la caccia al primo, se c'è un giocatore che sta nettamente prevalendo, e quelli che sono tagliati fuori dalla lotta per la vittoria, negli ultimissimi turni, assumono facilmente il ruolo di "kingmaker", ovvero le loro scelte possono essere decisive per scegliere chi andrà a prevalere fra i giocatori in lizza per la vittoria.

venerdì 15 gennaio 2010

Avatar


Sono corso a vedere Avatar al primo spettacolo disponibile e posso dire di non esser rimasto per niente deluso dalla grafica e, per così dire, dall' "esperienza" del film. L'immersione nel mondo immaginario creato da James Cameron è stata tale che ho avuto le vertigini mentre i personaggi correvano tra rami di alberi alti sul terreno, e a un certo punto ho fatto uno scatto per non prendermi un candelotto lacrimogeno in faccia.
L'affermazione che questo film possa essere una pietra miliare del cinema sa un po' di sparata, ma non è del tutto sballata: il film non è perfetto al 100% ma tutto sommato non sa molto di grafica al computer, e la sensazione che quello che vedi sia vero è qualcosa di abbastanza convincente, concreto: va visto per capire. Questo progresso e l'uso del 3D sono probabilmente un tentativo di fermare la pirateria, che ha minato i guadagni delle case cinematografiche: in effetti un film del genere va decisamente visto al cinema.

La storia è la solita favoletta ecologista e pro-indigeni che tanto piace agli occidentali, un esempio clamoroso di lacrime di coccodrillo, se si pensa che lo sterminio degli indigeni qui (da noi, sul nostro pianeta!) non si è mai fermato e continua anche in questo stesso istante con la sbrigativa eliminazione di tante popolazioni fedeli alla natura e alla terra; eliminazione che procede irreversibilmente nella foresta amazzonica, e immagino non solo lì.

[anticipazioni sulla trama] La tematica del film, che parla delle peripezie di un marine paralizzato, in bilico tra la lealtà alla sua gente (che è venuta a sfruttare le ricchezze minerarie del pianeta Pandora) e la nuova vita entusiasmante che ha scoperto come spia infiltrata fra i nativi da sfrattare o ammazzare, ha richiamato in me la memoria di un fatto storico (anche se la somiglianza non è completa): l'ascesa di Gonzalo Guerrero nel mondo dei Maya, da prigioniero a seguito di un naufragio, chiuso in una gabbia, a capo di villaggio e leader militare, che combatté i colonialisti di Pedro de Alvarado (un crudele ufficiale di Cortes) e morì per il popolo che lo aveva adottato. Ci sono anche possibili influenze dalla storia di Pocahontas, visto che è una bella fanciulla seminuda dalla pelle blu a insegnare lo stile di vita eco-compatibile degli indigeni al nostro marine (adottato dalla tribù); inoltre è sempre lei che gli salva la vita all'inizio del film.
Mi viene anche pensare che il successo dei Na'vi (nativi) in Avatar non dovrebbe essere di lunga durata. Un Avatar II è già previsto, non so con quale trama, ma credo che la sceneggiatura più credibile sarebbe un ritorno dei terrestri e un bombardamento dall'orbita per qualche mese con armi nucleari, radiazioni, napalm e chi più ne ha più ne metta, per poi raccogliere il minerale prezioso che ha suscitato il loro interesse senza indigeni dalla pelle blu (e un intero ecosistema che si ribella) a rompere le scatole.[fine anticipazioni]

Del resto la formula di Cameron per fare il film di più grande successo della storia l'abbiamo già vista con Titanic: una storia semplice (magari raccontata bene e con bravi attori) che possa attirare il più largo spettro sociale e demografico possibile, e un uso di effetti speciali senza badare a spese. Su questo aspetto Avatar non è una novità ma il ripetersi di una formula collaudata.
Comunque la capacità di coinvolgere di questo film merita senza dubbio una visione sul grande schermo. Quando poi si usassero cotanti mezzi per raccontare una storia più originale o più profonda, sarebbe un bel giorno.

lunedì 11 gennaio 2010

I Pirati dell'Oceano Rosso

Con il titolo in lingua originale di Red Seas under Red Skies, tradotto in italiano dalla Nord come I Pirati dell'Oceano Rosso, la mano di Scott Lynch ha proseguito le avventure di Locke Lamora e dell'amico Jean, unici rimasti del gruppo dei Bastardi Galantuomini (a parte un misterioso personaggio femminile che è a quanto pare l'amore perduto di Locke).

E' un fantasy abbastanza particolare, viscerale e intriso di parolacce, sangue, vomito e altri umori. Ha una ambientazione del tutto mediterranea e prevalentemente italiana, in questo secondo libro è ancora più evidente nei nomi, che sia pure storpiati con qualche lettera raddoppiata e qualcuna tolta, per lo più sono nomi di casa nostra. I protagonisti vivono di furberie e carognate (anche se sono fin troppo moralisti quando si tratta di essere corretti fra loro). Insomma siamo decisamente nel low fantasy, ma è un fantasy arguto e divertente.

Quanto allo stile narrativo di questo secondo volume della serie, direi che è più evoluto che non in passato. Non ripeto qui le osservazioni fatte per Gli Inganni di Locke Lamora, dirò solo che lo scrivere scorre meglio, e ad un certo punto si abbandona (per fortuna, perché qui non ci stava molto bene) la pratica di alternare capitoli di antefatto con i capitoli della storia.

La trama invece ha qualche problema. Nei Pirati dell'Oceano Rosso i nostri anti-eroi si avventurano per mare, e la serie di eventi per cui vi finiscono ha, mi sembra, una logica un po' stiracchiata. Anche il finale, vivace e fulminante ma abbastanza compresso (vista la necessità tirare in breve le fila di una lunga storia) ha i suoi inciampi, soprattutto nel fatto che ad un certo punto gli amici o i potenziali alleati di Locke e Jean diventano fin troppo disponibili ad aiutarli e i nemici fin troppo stupidi e facili a farsi fregare quando invece sembrava che avessero tutte le migliori carte in mano.
La parte avvincente è fondamentalmente quella che si svolge in mare, e c'è una battaglia navale indimenticabile. Il finale lascia una questione in sospeso, ed è una questione mica da poco.

Aggiungo un particolare che risalta di più in questo libro che non nel precedente. Il mondo di Locke Lamora è unisex, i soldati e i marinai sono indifferentemente maschi e femmine. Questo è più o meno lo stesso scenario che trovo in telefilm come Battlestar Galactica e non mi dà alcun fastidio visto che lì si tratta di un'ambientazione fantascientifica dove la modernità e l'aiuto della macchina hanno reso superflua la forza fisica del maschio.
Nel fantasy invece vorrei una spiegazione, visto che seppure non è il nostro mondo, si tratta di un mondo faticoso e duro: ma con Scott Lynch non ce l'ho. Penso che sia accettabile e opportuno per la maggior parte dei lettori, e che dia la possibilità di avere graziosi personaggi femminili ad allietare il panorama; insomma una specie di politically correct da gioco di ruolo.
Mi si consenta di starmene in minoranza ed esserne infastidito.

Conclusione: come spesso accade, non mi è facile dare una valutazione sintetica di un libro (e invidio quelli che usano con disinvoltura le stelline di aNobii o che sanno dare voti numerici ai libri che recensiscono). Con questi Pirati dell'Oceano Rosso ho trovato parti entusiasmanti e particolari poco graditi o curati meno bene, perciò il mio commento è necessariamente articolato. Se mi chiedessero: ma allora questo libro lo raccomandi o no? direi che se è piaciuto il primo si deve provare anche il secondo e se avete amato i protagonisti alla fine sarete contenti di aver letto anche questo.
Anzi credo che, se e quando uscirà e verrà tradotto, non potrò che leggermi anche il terzo della serie.

martedì 5 gennaio 2010

Tre anni di premi, cosa posso immaginare?

Parto proprio dal mio "Premio Immaginario" per pormi due domande: che impressione ho avuto da questi tre anni di letture, e quale ritengo sia il livello del nostro fantasy. Per avere una panoramica dei libri che ho letto, c'è il link qui a destra.

Senza tornare ad analizzare questioni di cui ho già parlato, confermo la mia impressione sulla mancanza di una caratteristica che unifichi il fantasy italiano e lo distingua: però non è necessariamente un male (la carenza di autori davvero validi lo è, ovviamente). La maggior parte del fantasy italiano (non necessariamente la maggior parte dei titoli, ma quelli che vendono qualcosa) è roba per ragazzini, semplicistica, pubblicata da case editrici che forse sperano di ripetere il colpaccio di Licia Troisi o di pescare in un laghetto dove qualche guadagno forse si riesce ancora a tirare su. Laghetto che gli addetti ai lavori però a volte non conoscono, o che snobbano con distacco intellettualoide.
Ma quello non è il fantasy che mi interessa. Essenzialmente mi occupo di quello che (ed è la minoranza) faticando a imporsi all'attenzione degli editori e a trovare la strada della pubblicazione, cerca di rivolgersi a un pubblico (anche) adulto.

Dal 2006, anno in cui ho deciso di riprendere in mano il mio romanzo (quel Magia e Sangue che riesce ogni tanto a classificarsi nei concorsi ma non ancora a vincere) ho letto parecchi libri di italiani. Dopo un po' di tempo, se voglio tirare le somme ed esprimere un parere, devo dirmi moderatamente deluso. Moderatamente perché non credo che sia tutto letame il fantasy pubblicato a casa nostra e spesso è evidente che le idee ci sono, e talvolta anche una buona capacità di esprimerle. Tutto sommato però lo scrittore italiano in generale ha poco in mano il mestiere, se paragonato agli stranieri che leggo (prevalentemente anglosassoni, esordienti non esclusi, e letti spesso in lingua originale).

Intendiamoci: non ho la mania delle norme di scrittura creativa o il culto dello show don't tell. Molti scrittori italiani non conoscono le regole canoniche che vanno per la maggiore, ma anche gli stranieri spesso ne fanno a meno, perciò la mia è una impressione generale di lettura e basta. In generale lo scrittore italiano è meno scorrevole, più incerto e meno divertente. Insomma c'è parecchia strada da fare.

Anche le scelte degli editori qualche volta mi lasciano perplesso, a dir la verità. Nel senso che, se è vero che capisco (magari di malavoglia) che cerchino di sfruttare la moda degli scrittori ragazzini o di un certo stile giovanilistico che esiste oggi, producendo una massa di libri che io personalmente non ho voglia di leggere, è anche vero che quando si cerca di uscire con qualcosa di più (ovvero libri per adulti e con qualche pretesa di qualità), il risultato è assai incerto.
Più di una volta titoli usciti per un editore valido o validissimo, e osannati come se fossero chissà che cosa, non mi sono affatto sembrati superiori alla media degli esordienti italiani. A volte si scopre di meglio negli angoli più nascosti: tra chi pubblica con case editrici minuscole o addirittura a pagamento.


A sinistra: critico letterario italiano




Dulcis in fundo. Se proprio devo tirar fuori dei nomi, fra i libri letti in questi anni il miglior esordiente trovo che sia Francesco Barbi con il suo Acchiapparatti di Tilos. Tra gli scrittori già affermati, il libro per me migliore è Pan di Francesco Dimitri.
Sempre fra le mie letture (italiane e fantastiche) di questi anni, gli unici scrittori di levatura internazionale mi sono sembrati il suddetto Dimitri e Valerio Evangelisti. Oltre, ovviamente, a Italo Calvino, visto che ho di recente letto anche uno dei suoi libri di argomento fantastico, ma è gloria di parecchio tempo fa...

Continuerà il Premio Immaginario? Come al solito, è in forse. Ho un grosso arretrato di libri stranieri da leggere e il 2010 potrebbe essere l'anno in cui cercherò di recuperare il ritardo.

sabato 2 gennaio 2010

Scacco matto al DRM


Parlo in effetti solo del Kindle 2 di Amazon. Non posso dire di considerare la pirateria "giusta" come fanno certi teorici del tutto gratis; non posso nemmeno dire, ahem, di essere senza peccato, però se c'è una cosa che davvero non mi piace è l'uso di congegni astrusi (e sfavorevoli all'utente) come il DRM per difendere il diritto d'autore.

Aggiungiamoci che Amazon non riscuote le mie simpatie, per via di una controversia con il "customer service" di Amazon.uk, in cui gli addetti mi trattarono a scarpate in faccia, e avevo ragione. Va be', è una cosa dannatamente personale, lo ammetto.

Però, dopo aver sommato tutto questo, potrete capire che mi ha fatto molto piacere quando ho letto che il meccanismo di protezione degli e-book di Amazon è già stato aggirato.

Tanti auguri al DRM.

venerdì 1 gennaio 2010

Rinascimento e arte della guerra


Con il fantasy non c'entra, con la fantascienza nemmeno... insomma ho letto The Renaissance at War di Thomas Arnold solo per il gusto di informarmi un po' meglio riguardo all'arte militare.
Dico una cosa però: l'idea di un fantasy dove l'elemento magico si mescoli ai picchieri in formazione chiusa o agli archibugi, alle meraviglie architettoniche e artistiche e alle artiglierie, non mi fa più completamente ribrezzo come poteva essere qualche anno fa. Sono elementi da mescolare con cura però. Probabilmente per il fantasy le ambientazioni dove le armi da fuoco e la scienza non hanno ancora il sopravvento restano le più facili.

Riflettere sulla rivoluzione militare del Rinascimento può comunque essere utile per chi è impegnato sul fronte del worldbuilding, ovvero dell'immaginare mondi. Certe rivoluzioni sono avvenute lentamente, con tanti passi falsi. Il Rinascimento però secondo questo libro si pone come un'epoca che ha preso una direzione precisa: epoca in cui una nuova razionalità e un nuovo interesse verso il periodo classico si unirono a modificare profondamente il modo di rapportarsi dell'uomo verso le arti e le scienze, e da lì trasse inizio una riforma militare (oltre a quelle culturali e religiose, ovviamente) che ha posto le basi per l'epoca moderna e per il temporaneo predominio dell'Europa sul resto del mondo.

Oltre a queste interpretazioni storiche il lettore troverà interessanti disquisizioni tecniche su armi, armature e fortezze, e diagrammi relativi a un bel numero di battaglie, molte delle quali avvenute proprio nel nostro paese. Vediamo alcuni punti salienti.

Le armature giunsero in quest'epoca a una perfezione mai vista prima eppure erano destinate a declinare, come la classe sociale che ne faceva maggiore uso, quella dei nobili. Essi dovettero adattarsi e trasformarsi da guerrieri in ufficiali, mestiere completamente diverso. L'arte del condurre un esercito passò dall'ispirare un'orda confusa alla carica per infilarsi poi nel folto della mischia a scambiare mazzate, a una scienza del comando molto precisa, con elementi di logistica e di matematica, dove la razionalità e il sangue freddo avevano la meglio sul coraggio sanguigno del guerriero.
Ha inizio infatti in quest'epoca una diversa disciplina degli eserciti, ispirata in parte all'antichità classica e all'arte della guerra degli antichi Romani, con l'uso di complesse formazioni da battaglia. Queste servivano ad permettere una migliore azione di comando e a ottimizzare l'uso delle armi da fuoco, permettendone allo stesso tempo la protezione a opera degli elementi ancora dotati di armi bianche (generalmente picche in quest'epoca, seguendo gli esempi svizzero e spagnolo).

La cavalleria declinava, diventando sempre meno fondamentale nella battaglia, e finiva anch'essa per dotarsi di armi da fuoco.

Quanto alle artiglierie, la loro lenta evoluzione segue il miglioramento non sempre velocissimo della metallurgia: l'italiano Carlo Cipolla in Vele e Cannoni ha parlato di questa rivoluzione tecnologica, affiancandola a quella della navigazione per esporre i due cambiamenti chiave che hanno creato la supremazia europea.

Ricordiamo che nel '500 l'Europa (la cristianità, se vogliamo) era ancora sulla difensiva contro il temibile risveglio espansionistico dell'Islam, portato avanti dall'Impero Turco. Ma se da una parte si cedeva terreno contro i nomadi venuti dalle steppe e il loro vitalismo espansionista (non privo di una certa curiosità per le tecnologie peraltro, sia pure con l'intermediazione di specialisti europei rinnegati), dall'altra era già iniziata quella rapace corsa europea verso le Americhe, verso l'Oceano Indiano, che avrebbe cambiato completamente il contesto e chiuso l'epoca in cui il Mediterraneo era il centro del mondo (quello occidentale, per lo meno).

Cambiamenti che interessarono ovviamente anche l'Italia. Patria dei più grandi navigatori e tecnici, costruttori di armature e di fortezze e teorici dell'arte militare, patria ricca di arte e storia e a quei tempi anche benestante rispetto al resto dell'Europa. Divisa in un sistema di principati che creavano una situazione di continuo stallo fra loro, destinata ad essere spazzata via dai moderni stati nazionali che fecero della penisola il loro campo di battaglia. Condannata a un declino di cui molti avevano una consapevolezza impotente, proprio nel momento in cui le sue espressioni artistiche raggiungevano il vertice.

Insomma, proprio un periodo interessante, un cambiamento epocale che ha travolto la visione del mondo dei propri contemporanei. Mi chiedo, oggi forse viviamo uno stravolgimento analogo e non vogliamo rendercene conto?

Conclusione: breve e introduttivo, purtroppo solo in inglese, questo The Renaissance at War lo consiglio per una infarinatura rapida ma non superficiale sull'argomento.